mercoledì 20 ottobre 2021

In nome della Iegge, disperdetevi

 


Abbiamo scelto di iniziare con le parole con cui lunedì il funzionario di polizia ha data il via allo sgombero del porto di Trieste.


Perché? Perché sarebbe potuta essere un'immagine in se grottesca se non fosse stata poi il preludio di una delle pagine più nere nella storia recente della repressione di piazza. Perché é stato un eccezionale spiegamento di forze quello che si è visto “all'opera” lunedì a Trieste, con cariche che si sono protratte per tutta la giornata, terminando le scorte di lacrimogeni, con una caccia all'uomo che ha assediato quartieri interi, prendendone in ostaggio gli abitanti con acqua e gas. Perché in altri tempi sarebbe bastato questo per capire da quale parte dell'idrante è giusto stare.

Perché l'intervento é stato ordinato dal governo Draghi e da Confindustria con il sostegno dei sindacati confederali. Perché le code interminabili di tir formatesi in seguito ai varchi di accesso, sono li a dimostrare che il blocco c'era, eccome, e "ha fatto male", sul piano economico come su quello politico, e per questo andava soppresso. Un segnale rivolto alle iniziative spontanee di blocco e interruzione sparse per il paese, che segue gli arresti e le denunce di Milano. Mentre Mattarella si "sorprende e addolora che proprio ora esplodono fenomeni con atti di violenza, di aggressiva contestazione, quasi a voler ostacolare la ripresa del Paese che deve esser condotta a buon fine con fatica e con impegno".

Perché quel “disperdetevi” è una sintesi perfetta dell’idea che sottende la gestione emergenziale che va avanti da più di un anno e mezzo: la volontà di dividere, atomizzare, parcellizzare l'intero corpo sociale. La base su cui si è fondata la ricerca continua del capro espiatorio, tesa ad attribuire al singolo la colpa del disastro istituzionale. Perché il green pass è l’applicazione plastica di quel “disperdetevi”, non assolve ad alcuna funzione di profilassi o di contenimento del contagio, ma agisce solo come nuova linea di esclusione, che producendo separazione, scarica le responsabilità verso il basso.

Perché altrimenti si corre il rischio di dimenticarsi della motivazione centrale di queste proteste: il rifiuto del green pass come dispositivo regolatore del mondo del lavoro e della vita di tutte e tutti. Questo è il punto che non é possibile eludere. Se riteniamo il green pass una misura iniqua, inutile e fortemente vessatoria, allora non possiamo che stare dalla parte di chi ha bloccato il porto di Trieste.
Perché al porto, nella piazza di Trieste, si è espressa una forza collettiva che sta tentando di opporsi all’ennesima misura insensata, discriminatoria, repressiva messa in campo dal governo di unità nazionale. Una piazza senz'altro eterogenea, multiforme, dalle caratteristiche nuove, che va inchiestata con l’azione diretta che prova a stare dentro alle contraddizioni. Con la consapevolezza di una fisionomia che non può che riflettere la profonda crisi culturale, sociale e politica in cui versa un paese che da decenni é orfano di un qualsiasi punto di riferimento che sappia enunciare parole di trasformazione.

Perché non possiamo non riconoscere come il green pass rappresenti un’imposizione che lavoratrici e lavoratori, soprattutto quelli dei settori essenziali che vennero forzati a portare avanti la produzione ad ogni costo, non possono accettare. Non possono piegarsi a un attacco frontale al mondo del lavoro che vede rovesciarsi addosso quella sicurezza e quella tutela della salute che dovrebbe essere a carico delle aziende, che invece ignorano e si rifiutano di garantire. E come se non bastasse, questo avviene mentre Confindustria, che per mesi ha costretto ad andare al lavoro nelle aree di massima diffusione del virus, annuncia di voler chiedere i danni ai lavoratori senza green pass che creeranno disagi alle imprese. Ridurre le proteste di queste settimane a una mobilitazione contro il vaccino, appiattirne la multidimensionalità sullo spauracchio “no vax”, significa commettere un grave errore: quello di assecondare la semplificazione mediatica utile all’individuazione del nuovo nemico pubblico, da criminalizzare e marginalizzare, quando l’obiettivo politico su questo terreno sarebbe quello di ampliare e generalizzare l’opposizione sociale allo stato di emergenza.

Cadere nella trappola di chi vorrebbe rinchiuderci nel recinto della difesa dei diritti individuali è un lusso che non ci possiamo permettere. Perché è il gioco di chi dagli anni ottanta ripete che "la società non esiste, esiste solo l’individuo". Riconosciamo in quelle piazze - parliamo al plurale perché in queste settimane quella di Trieste non è stata l’unica, e i presidi ai porti proseguono, da Genova ad Ancona - la complessità del reale, abbandonando il feticcio del “popolo della sinistra” spazzato via nelle sue ultime misere rappresentazioni da questo anno e mezzo di pandemia.

Di fronte a quelle persone schiacciate tra gli idranti di Draghi e i decreti sul reato di blocco stradale di Salvini non crediamo ci possano essere tentennamenti.
Le proteste contro il lasciapassare hanno dimostrato di poter avere in potenza un contenuto molto più ampio di quello che si vorrebbe far credere, e ne si e avuto un esempio nella contaminazione prodottasi durante il recente sciopero generale dell'11 ottobre.
È responsabilità di quanti si battono per la trasformazione dello stato di cose presente agire quello spazio di possibilità, renderlo uno spazio utile a generalizzare, ricomporre, riunire ciò che vorrebbero dividere. Partire da quell'istintivo spirito di solidarietà di classe che ha portato alcuni colleghi di lavoro a non abbandonarne altri, e a lottare insieme a lavoratori di altre categorie. Trasformare l'istinto in consapevolezza. La consapevolezza in nuova forza collettiva.

È un compito arduo, tutt'altro che semplice. Ma crediamo che questo non sia il tempo delle lamentazioni, ma quello di "organizzarsi per insorgere". Viviamo tempi difficili, ma siamo forti di alcune convinzioni di fondo. Sappiamo che il vero antifascismo è quello che sta dalla parte degli sfruttati e non da quella dei padroni. Sappiamo bene che le parole “dignità” e “libertà” sono autentiche solo se declinate e agite collettivamente. Sta all'impegno di tutte e tutti tradurre quella complessità nell’affermazione semplice di una lotta contro l'autoritarismo e il disciplinamento della stato di emergenza, per aprire nuove prospettive di autodeterminazione per quanti soffrono oppressione e sfruttamento.


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